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emanueleandreaspano

La nostra classe sepolta. Cronache poetiche dai mondi del lavoro, Pietre Vive, Locorotondo, 2019.





La poesia, si sa, è una forma di resistenza: lo si è detto tante volte, spesso come guardando il mondo da una torre d’avorio, ancora più spesso lamentando un po’ pretestuosamente l’esclusione da una qualche letteratura ufficiale, una messa all’indice, un ostracismo insensato che ci colpirebbe, sommariamente, in quanto poeti.

Eppure, se di resistenza si parla, non vi è dubbio che questo libro, sapientemente costruito da Valeria Raimondi, incarni una resistenza autentica, riconoscendo alla parola poetica il primato, troppe volte riservato ad altre forme di scrittura, di raccontare il lavoro e quel legame, spesso asfittico e alienante, che l’uomo stesso ha con quel mondo che lo alimenta e lo fagocita al contempo. Alla Raimondi, che si conferma ancora una volta lettrice attenta e intelligente, oltre che poetessa raffinata e profonda, il merito di aver intrecciato un’antologia che non assomiglia a un’antologia, una raccolta compatta di voci in cui prevale la narrazione corale, il racconto, rispetto alla catalogazione arida tipica del genere, in cui i testi dei singoli poeti si amalgamano in una sorta di romanzo lirico destrutturato. Ne è una conferma la scelta di ridurre al limite la presentazione degli autori, inficiando il presenzialismo che sovente è prerogativa delle antologie stesse, riducendoli, se così si vuole dire, a semplici lavoratori, operai, impiegati, insegnanti e lasciando che quel “secondo mestiere” discenda in toto dalle loro parole e non dal rosario un po’ fasullo dei premi, dei riconoscimenti, delle pubblicazioni. Ne è un’ulteriore conferma la scelta della struttura, l’uso delle sezioni che dal verso di Luigi Di Ruscio, poeta caustico e non allineato, di cui si parla sempre troppo poco, discendono a tracciare un itinerario dolente che attraversa e perlustra con lucidità e disincanto le anse di un moderno girone infernale.

“Il pane quotidiano”, che rinsalda il legame ineluttabile tra l’individuo e la sua condizione di lavoratore, apre all’ “homo oeconomicus”, al dramma dell’uomo contemporaneo che esiste in quanto consumatore e utilizzatore, fino all’epilogo della “colata continua”, quella incandescente della fonderia che simbolicamente annienta l’individuo e lo spersonalizza fino a farne un pezzo, un ingranaggio senza nome nella società votata al profitto e agli interessi del mercato. Proprio dalla “fabbrica” potrebbe diramarsi questo viaggio, come se proprio lì albergasse ancora un granello di quella “classe sepolta”: dalla «mela rossa» di Franzin che resta sul piano, accanto alla rondella arrugginita, a testimoniare l’operaia che «che non torna», fino al rumore della fabbrica che Matteo Rusconi si trascina fino a casa, sotto la doccia («come un reduce porta dentro sé l’odore della guerra»); dal “distributore di caffè” di Luca Bassi Andreasi che ci racconta un’alienazione più sottile, più subdola, l’abbonamento alla macchinetta che non cancella quel gesto ripetuto ogni giorno “feriale o festivo” fino allo sfinimento; fino al ritratto impietoso dell’operaia della Seleco, tracciato da un tagliente Francesco Tomada, quella che «da anni ha imparato / che manca sempre mezz’ora di troppo /alla fine del giorno.»

Se alienante, quasi per definizione, è il lavoro dell’operaio, che pure sembra aver smarrito quel senso di appartenenza, quella coscienza del lavoratore di altri tempi, a raccontarci quello iato tra l’uomo e il suo mestiere, quella frattura insanabile tra la mente e la mano, sono le parole di Lucianna Argentino che dalle sue vesti di cassiera ci dice, forse davvero, il senso di quell’alienazione così subdola e abbacinante. «Il camice attende il mio corpo / per farsi anima e generare foglietti / in gestazione di parole, nate per fame e per sazietà», scrive, quasi a voler delineare un confine tra quella mano che genera parole nell’ombra e la stessa mano che, indossate le vesti del lavoro, produce tonnellate di carta senz’anima.

La ripetitività, certo, ma anche, come emerge in tante pagine di questo libro, il senso di esclusione, di marginalizzazione che si fa evidente e devastante nelle esperienze degli immigrati, che si portano dietro un pezzo di un mondo che non gli appartiene più e che dalle loro solitudini sanno raccontare con esattezza la solitudine di tanti loro simili. Come Marjo Durmishi, albanese, disoccupato, che nelle lunghe notti della Danimarca ottiene un passaporto e la bicicletta, lasciata lì da Ferat, il bosniaco, o come Fouad Lakehal, disoccupato anche lui, approdato dall’Algeria nel bresciano, che scrive quasi con commozione viva «eravamo affiatati, solidali» mentre ricorda il peso di quel calvario che un po’ li rendeva simili: «raffreddavamo le bibite / sotto il getto d’acqua arrugginita» e ancora «parlavamo a intermittenza / tra un colpo e l’altro della pressa»..

La disoccupazione, il precariato, quello dei lavoratori a progetto, degli insegnanti, quelli che non sanno raccontare alla studentessa dodicenne cos’è un debito e rispondono con una definizione da “dizionario” per non dire la verità, fino in fondo. Come Alessandra Flores D’Arcais che tratteggia un ritratto atroce di quell’ “homus oeconomicus” piegato dalla società del mercato, trasformato in un ingranaggio, schiavizzato dal lavoro del nuovo millennio (quello dell’ “efficienza nomade” della “creatività flessibile”) che minaccia di seppellirci e di toglierci l’ultima briciola di umanità rimasta.

Tutte le anime del lavoro insomma paiono riunite in una narrazione corale in cui, smarrita ogni forma di ideologia, persa ogni illusione, resta il gesto: quello del lavoratore che seguita nella sua mansione, nonostante tutto; quello del poeta che, nonostante quello smarrimento, sa raccogliere nella parola la fatica, due gesti che talvolta si toccano, fino a combaciare, a dirci che l’essere poeta non è un mestiere, ma un dovere.

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