Esplorare il dolore, addentrarsi nel tessuto dolente della malattia, raccontare da dentro il travaglio di una corsia d’ospedale è certo un’operazione poetica tanto necessaria, quanto delicata. Si è sempre al limite del patetismo, sempre al confine della cronaca familiare, sempre a un passo dalla rievocazione commossa e commovente della propria piccola esperienza, sempre insomma sul filo dell’autoreferenzialità con tutti i mali che può recare alla scrittura.
Eppure la malattia è una condizione intrinseca dell’esistenza umana e tra tutte quella più capace di narrare quel baratro su cui siamo sospesi inconsapevolmente, quella frattura tra vita e morte che percorriamo quotidianamente in un equilibrio instabile e precario.
Questo libretto di Emilia Barbato, una suite, come in tempi non troppo lontani l’avrebbero forse definita, è la dimostrazione cangiante di come si possa in poesia raccontare la malattia, di come si possa tradurre quel dato privato e intimo in una sinfonia perfetta, in una composizione nella quale la riflessione pacata e lucida sulla nostra condizione non travalica e non tradisce quell’eredità così dolorosa da cui si è originata.
Le poesie della Barbato ci conducono forzatamente in un tunnel in cui l’oscurità pare, verso dopo verso, prevalere e prendere il sopravvento, un viaggio apocalittico scandito in tre sezioni che prendono a prestito il loro nome da quel lessico tecnico che diventa una parte del mondo e della vita dei pazienti oncologici: la sigla dei marker tumorali che accertano e confermano quella diagnosi infausta, il numero che ci viene assegnato, il farmaco che ci viene iniettato, che ci uccide e ci salva al tempo stesso.
Sembra insomma che la spersonalizzazione, la perdita d’identità sia la prima condanna a cui si è sottoposti in quanto malati: l’essere ridotti a un numero, a una cartella clinica, l’essere ombre dentro un girone; ma quel livellamento che ci tocca, e che pare una tragica premonizione di una morte che ci renderà tutti uguali, è anche una nuova umanizzazione che ci obbliga a riconoscerci nell’altro, a riscoprire la nostra malattia come parte di un morbo più grande che ci interessa tutti e ci rende così simili e indifesi davanti al destino.
Non è un caso che l’incipit di questo libro ci mostri una tragica carrellata su quei “relitti alla deriva”, su quelle “teste canute” che popolano le stanze e solo dopo giunga il “tu”, la persona amata che la Barbato quasi scinde in un corpo e in un’anima attraverso la parola. Quel corpo martoriato, ridotto a un cumulo di ossa stremate dalla malattia, quel corpo che è una terra arata dal dolore, fatta di vene gonfie di medicine, un corpo magro che quasi si svuota e diviene tanto simile a quei centri commerciali alle prime ore del mattino, luminosi e desolati come “cattedrali splendenti nel deserto”. E poi quell’anima, quella vita rappresa negli sguardi, nelle parole assenti, una vita che torna a rifiorire attraverso i ricordi di un passato non lontano, quando tutto pareva così luminoso, quando l’ombra della morte non ci camminava accanto (quegli “anni semplici che brillavano”, cadenzati dall’ondeggiare delle lanterne di riso di un compleanno di bambina).
L’elemento della terra ritorna a più riprese dentro al libro: la “terra dei fuochi di mia mamma” scrive la Barbato per dare un nome a quel male oscuro che divora dall’interno, a quella “parola storta /che cresce nell’intestino”, eppure la terra, quella “terra che brucia”, appunto, ma al tempo stesso “genera”, in un ciclo ininterrotto di morte e vita, quella terra che è ventre e vuoto, che è un “terreno spugnoso” pieno di cavità oscure, che è un “suolo” infine che la poetessa non può sottrarre a “una rovinosa pastura” mentre assiste inerme al dilagare della “malerba spinosa”.
La terra racchiude in sé il mistero di una Natura che si affaccia e lambisce le stanze del dolore e quasi si contrappone con il suo alfabeto musicale al rumore stridente della malattia. Se per la paura, quella cupa che stritola in gola l’urlo disperato della figlia (“se solo riuscissi a liberarlo”), la Barbato vorrebbe il rumore del vento tra i “rami del sambuco”, altrove la “pioggia trilla trasparenze”, con un sincretismo che racconta il miracolo della natura che si compie, il vento agita la campagna, mentre i girasoli minacciano di spegnersi in un “crepitio” ad annunciare quel giudizio che resta sospeso a un palmo sopra di noi. E dall’altra parte si avverte, chiuso nel ventre metallico di un ospedale, un “borborigmo sinistro”, lo “sbuffo della pompa”, la litania sommessa delle preghiere che restano intrappolate nella corsia fredda.
Morte e vita, luce e oscurità insomma che trovano forse un compendio nei versi finali di questa raccolta, nella “neve” che cade dai pioppi in primavera che lascia intravedere quel “residuo inverno” che le brucia dentro e non si spegne, nel viso stesso della madre che racchiude in sé: “l’equilibrio fragilissimo delle vette” e “lo sgomento dei precipizi”.
***
Si muore nell’inatteso di un giorno,
per una falla di pianificazione,
si resta pietrificati e freddi
sul baratro della sorpresa.
Semino ore in una terra arida,
disconosco il fuoco
e poi misuro i decibel di un urlo
– se solo riuscissi a liberarlo –
***
Che timbro ha, come suona la paura?
Vorrei che la nostra sibilasse come il vento
tra i rami del sambuco,
che fosse il rigo musicale di una foglia
e invece mamma mentre inseguo
la screpolatura che farfuglia le tue
fragilità un borborigmo
sinistro spaventa entrambe.
Ondeggiano ancora le lanterne di riso del mio tredicesimo
compleanno, quando sono sparite? Ricordi
gli anni semplici che brillavano? Oggi tutto è
incerto, l’attesa è castigo e disciplina.
***
Non c’è rimedio al terreno impervio
delle tue inesplorate fragilità,
nemmeno se anticipo il naturale
incanto della bocca sui tuoi capelli.
Emanuele ti ringrazio infinitamente per questa recensione così sentita, solo chi comprende fortemente può raggiungere tanta profondità. Ho stima di te, ho adorato il tuo libro. Ti sono grata per questo dono