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  • emanueleandreaspano

PER GIAN PIERO BONA (1926-2020)






Riscopro dopo anni la dedica che Gian Piero Bona mi scrisse in calce al volumetto di poesia Serenate per l’angelo che mi aveva mandato in dono nell’ormai lontana primavera del 2012. Avevo conosciuto Bona pochi anni prima, gli avevo fatto visita nella sua villa sulle colline torinesi ed ero subito rimasto colpito dell’ingresso che aveva scelto per quella dimora così isolata, nascosta dal mondo da una densa e suggestiva cortina di sempreverdi: quell’anticamera con due chaise longue bianche quasi sepolte dalla moltitudine di libri e di armadietti zeppi di manoscritti e carte, che immetteva nella splendida biblioteca che affacciava sul giardino all’italiana. Mi parve, allora, una scelta in perfetta sintonia con l’indole di Bona, con la sua naturale inclinazione verso le cose: la letteratura come anticamera del mondo, la parola come filtro preliminare e imprescindibile, i libri come viatico indispensabile per affrontare qualsiasi viaggio dentro al reale.

Bona era un uomo non facile, e certo un autore non facile come lo sono tutti gli intellettuali con una certa integrità e coerenza, sempre al di fuori e mai allineati fino in fondo con il loro tempo. Un uomo spigoloso a cui però si illuminava lo sguardo mentre raccontava delle sue tante vite artistiche: le traduzioni, la poesia, il romanzo, la televisione, il teatro, il cinema.

Ma chi era davvero Gian Piero Bona, era davvero lo scrittore e il poeta, messo al bando dall’editoria ufficiale, marginalizzato dalle cronache letterarie, come si definiva in una splendida lettera che mi inviava proprio in quegli anni, oppure era, fino in fondo e a qualsiasi costo, l’intellettuale che non voleva schierarsi e che dalla sua torre d’avorio si prendeva il lusso di stare fuori, senza cedere alla tentazione di scadere nelle mode, di abbandonarsi all’onda del momento? Un escluso o un anacoreta, un appestato o un’asceta, o forse tutte queste cose, se è vero che oggi tutti i contrasti che allora mi apparivano poco conciliabili, mi sembrano riassunti proprio in quella spigolosità che era al tempo stesso dell’uomo e dell’artista.

La prima cosa che lessi, accanto alle poesie de I giorni delusi, poesie già pervase di un classicismo filosofico sottile e di un gusto ancora vagamente ermetico, fu proprio il romanzo d’esordio, Il soldato nudo, che, all’alba degli anni Sessanta, raccontava una iniziazione omosessuale in chiave militaresca, senza mai cadere nel volgare o nello scandalo a tutti i costi. Una levità che ancora si conservava, a distanza di oltre quarant’anni, nelle Canzonette priapee – che tra l’altro trattenevano ancora qualche eco di quella vena militaresca – dove il classicismo e l’esattezza del verso contengono e amplificano la tematica dichiaratamente omosessuale.

Classicismo, e un classicismo colto, raffinato e non di maniera, e dissacrazione, nel senso più alto e meno chiassoso del termine, ricerca di un oltre, o di un prima quasi in senso ontologico e metafisico; dialogo costante con i fantasmi che ci appartengono e che ci portiamo dietro in ogni momento, fantasmi di un passato lontano o lontanissimo, figli di una nostalgia alla Lukacs per un epos perduto, che rimpiangiamo in quanto moderni. E in questo senso esiste un accordo sotterraneo a distanza di anni tra quegli Ospiti nascosti, tra quelle presenze che affollano la Natura su cui ci muoviamo, e l’angelo a cui Bona dedica le sue serenate, un angelo silenzioso e altero che ci cammina a fianco. Così come, alla luce di quanto detto, non paiono inconciliabili ora il Rimbaud, tradotto con un rigore filologico e una sensibilità impareggiabili, e il Gibran del Profeta.

Una poesia che in maniera sublime, riabilita e conserva una tradizione anche di forme – e si pensi agli splendidi Sonetti maestosi e sentimentali – una poesia che mantiene intatta tutta la sua eleganza e che patisce, forse proprio in virtù di questo, la censura di quanti vorrebbero il linguaggio poetico tragicamente prostrato alla rappresentazione del “qui ed ora” e definitivamente sganciato dagli artifici della retorica, dalla “meraviglia” che solo una scrittura che non tradisce la sua radice arcaica e profonda sa trattenere.

Non resta che citare, come ultimo estremo lascito di questa voce, così armonica eppure così tagliente, qualche verso, estrapolato proprio da Gli ospiti nascosti, che oggi nel giorno dell’addio ci appaiono come un profondissimo e lucido testamento poetico.

Ah, quando correrà il mio piede

non visto su questa vecchia terra,

e quando primavera scioglierà la neve

sulle mie ossa sibilline, punti

cardinali dell’avventura nuova,

e sventolerà orientali drappi

da guerriero – qualcuno, sulla riva

che ho lasciato, la mia carcassa infiori

dove salta in un erboso alleluja

l’insetto, nient’altro.

(G.P. Bona, Gli ospiti nascosti, Torino, Einaudi, 1990)

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